sabato, maggio 09, 2009

L'origine del concetto di decrescita nelle parole di Serge Latouche

Fonte

Lo "sviluppo" è simile a una stella morta di cui si scorge ancora la luce, anche se è spenta da molto tempo, e per sempre


Che cosa considera emblematico delle disfunzioni di un’economia basata sulla crescita?

I cicloni, sempre più frequenti in questi anni, e sempre più gravi, conseguenza della deregulation climatica. Questi disastri pongono il problema di un pianeta in cattivo stato, devastato e non più vivibile, non più vivibile per noi, per l’umanità...

Eppure gli economisti continuano a parlare di crescita.

La crescita è un concetto bizzarro, perché è qualcosa che per noi è familiare, noi viviamo in una società della crescita, in un’ideologia della crescita, è una specie di ovvietà. Se invece guardiamo all’interno della storia delle società umane, è invece qualcosa di eccezionale, riguarda solo l’occidente e solo gli ultimi tre secoli dalla rivoluzione industriale inglese in poi. È un concetto che non si può tradurre in quasi nessuna delle lingue non europee, perché la maggior parte delle società umane non immagina che il domani possa essere sempre migliore dell’oggi e che ogni giorno sia migliore del precedente. L’obiettivo è invece quello di realizzare un maggior benessere generale, un sentimento di soddisfazione generale.

Da dove nasce questo concetto di crescita illimitata?

La crescita può avere un senso, è un’immagine che gli economisti hanno ripreso dalla biologia, in particolare dalla biologia evoluzionista perché gli organismi viventi, il grano, ciò che nasce nella terra, germina e si sviluppa. Avviene così per tutte le piante, ma le piante nascono, crescono e muoiono, le società contemporanee invece pensano che la crescita economica sia qualcosa di illimitato. È questo concetto di illimitato che pone dei problemi perché è irragionevole: c’è già un deficit alimentare e di altro, di acqua ad esempio, per cui non ha senso pensare che la produzione di alimenti o la disponibilità di acqua siano illimitate... Noi abbiamo fatto della crescita una specie di parola feticcio che vale per tutto e porta con sé anche la crescita dell’inquinamento, delle malattie, dell’intossicazione, è un concetto perverso e assurdo perché viviamo in un mondo finito e come si può credere che avremo una crescita infinita?

Ma se un Paese è sempre più ricco produce anche migliori condizioni di vita per tutti!

Il Prodotto Interno Lordo è un altro feticcio: si riferisce ad analisi statistiche che valutano la ricchezza, una valutazione che comprende un po’ tutto: l’inquinamento e le spese che vengono espresse per arginarlo. Anche le catastrofi rappresentano buone notizie perché permettono la crescita del PIL e i rimedi per affrontarle sono altrettanto buone notizie perché producono ancora un aumento del PIL. Non so se questa idea della ricchezza misurata attraverso il PIL sia sensata. La stima è fatta attraverso un’idea nuova di misurazione che l’occidente ha elaborato nell’ultimo secolo, cioè la felicità degli uomini misurata attraverso la crescita del PIL e identificata con la soddisfazione per la crescita dei consumi: consumate sempre di più e sarete più felici! Questo dimostra l’assurdità del concetto: consumare in modo illimitato è folle in un mondo in cui esistono dei limiti.

Che cosa si intende per decrescita?

La decrescita, che sia chiaro, è uno slogan non un concetto, non è qualcosa di simmetrico alla crescita. La crescita è una specie di teoria, mentre la decrescita non lo è. Si tratta di uno slogan nato per spezzare in qualche modo la parola dominante, l’ideologia stessa della crescita. Se si volesse essere rigorosi bisognerebbe parlare di acrescita, come si parla di ateismo e precisamente di un'opposizione a una specie di religione. La crescita è infatti una vera religione a cui ci si affida per fede, è una verità che non deve essere contestata, un culto con i suoi riti consumistici. Quando si dice che una crescita infinita non è possibile in un mondo finito, diciamo anche che tutti i problemi che conosciamo, ecologici, culturali, sociali, sono sorti con quella stessa idea, e bisogna uscire da questo meccanismo infernale. Per questo la parola decrescita ha un aspetto provocatorio.

Quali cambiamenti reali comporterebbe la decrescita?

Concretamente una società della decrescita poggerebbe su un cambiamento dell’immaginario, un cambiamento di valori perché non si baserebbe più sull'idea che l’uomo debba dominare la natura, produrre sempre di più, lavorare sempre di più, guadagnare di più per consumare sempre di più, consumare sempre di più per produrre di più, un circolo vizioso insomma. Ci sarebbe un cambiamento dei valori di riferimento, una rivalutazione degli aspetti non quantitativi, non mercantili della vita umana. Si possono scoprire altre forme di ricchezza, non economica e mercantile ma una ricchezza relazionale, rapporti più ricchi all’interno della famiglia, con gli amici, si potrebbe vivere in una società più solidale che è cosa più importante del consumare sempre più gadgets.
Si potrebbe ristrutturare l’apparato produttivo per altre forme di produzione, cosa essenziale per la sopravvivenza del pianeta, attuare quello che gli specialisti chiamano l’impronta ecologista della produzione.

Che cosa si intende per “impronta ecologista della produzione”?

L’impronta ecologista indica, come è stato volgarizzato tempo fa dalle parole del presidente Chirac a Johannesburg, la valutazione della quantità degli spazi bioproduttivi che il nostro modo di vivere consuma: per nutrirci, vestirci, per usare le macchine abbiamo bisogno di terra e natura. Il pianeta è finito, lo spazio bioproduttivo, cioè quello che ci permette di vivere con quello che produciamo, è limitato. Conosciamo il numero della popolazione, la divisione delle superfici per popolazione, per cui un modo di vivere come quello attuale necessiterebbe di consumare tre volte tanto rispetto a quello che è disponibile. Il nostro modo di vivere supera del trenta per cento quello che è sostenibile e in più ci sono delle disuguaglianze insopportabili: se tutto il mondo vivesse come viviamo noi francesi avremmo bisogno di avere a disposizione tre pianeti da consumare. È importante e urgente cambiare: noi mangiamo il nostro patrimonio, viviamo sul nostro patrimonio, consumiamo in modo dissennato quello che la natura ha accumulato in milioni di anni, come ad esempio il petrolio, e tutti i principali minerali che non possono durare in eterno. Oltrepassiamo anche la capacità di rigenerazione della biosfera che per fortuna ha capacità rigenerative straordinarie, ma c’è un momento in cui il prelievo è troppo forte, pensiamo alla pesca: noi peschiamo più di quanto il mare riesca a ripopolare. È urgente quindi ridurre, consumare meno beni materiali.

Che cosa accadrà?

Alcuni fondatori dell’ecologismo dicevano che stiamo accuratamente preparando l’avvento di una serie di catastrofi entro una quarantina d’anni. Se queste catastrofi non fossero così gravi da produrre la fine dell’umanità, ma abbastanza per risvegliarci direi che potrebbero avere un carattere pedagogico. Negli ultimi anni abbiamo avuto una serie di catastrofi “pedagogiche”: l’esplosione del quarto reattore di Chernobil, ad esempio, ha avuto sicuramente un carattere pedagogico tanto che alcuni Paesi, tra cui l’Italia, hanno rifiutato il nucleare. Anche la Francia lo ha limitato e progressivamente pensa di abbandonarlo... Ugualmente la mucca pazza è stata una catastrofe, ma ha cambiato le abitudini alimentari dei consumatori ed è una delle ragioni per cui i consumatori europei hanno rifiutato l’introduzione degli Ogm. È ragionevole pensare che nei prossimi anni si verificheranno altre catastrofi, oggi abbiamo il problema dell’esaurimento delle risorse petrolifere, anche se il petrolio non è certo una benedizione per il mondo dato che si fanno guerre disastrose in suo nome. Infine è urgente il problema climatico...

Un effetto negativo della globalizzazione.

La deteritorizzazione è una conseguenza fondamentale della globalizzazione. Noi paghiamo il costo dei trasporti, ma lo paga soprattutto l’ambiente! Sarà ragionevole, quando il trasporto sarà sempre più caro perché il petrolio sarà sempre più scarso, riscoprire le virtù della prossimità, dei prodotti locali, del giardino, dell’orto. Altra conseguenza è l’artificializzazione dei costi. Costa di più il trasporto del prodotto! Una delle misure previste dalla decrescita è la ricollocazione delle attività economiche perché ci sembra folle che, ad esempio, lo yogurt alla fragola che troviamo al supermercato comporti 9.000 chilometri per il suo trasporto quando una o due generazioni fa, uno yogurt migliore e più sano di questo era fatto con il latte delle mucche del vicino e le fragole del giardino. Tutto quello che consumiamo oggi richiede migliaia e migliaia di chilometri di trasporto. Qualche anno fa gli economisti americani avevano calcolato una media di 5.000 chilometri per ogni prodotto che consumiamo, oggi possiamo dire che, con l’apertura all’economia cinese, si superano i 7.000 chilometri. Tutto quello che consumiamo, tutto quello che indossiamo richiede migliaia di chilometri di trasporto. Se noi vogliamo limitare la deregulation climatica, che è ciò che in modo più urgente minaccia oggi il pianeta (anche se non è certo la sola minaccia, pensiamo all’inquinamento chimico, batteriologico...), dovremmo rimettere in questione questa logica di deteritorializzazione, delocalizzazione. Riteritorializzare e ricollocare l’economia passa anche attraverso la ricolocalizzazione della vita, della cultura. Dobbiamo ridare senso ai luoghi perché noi siamo condannati a vivere là dove posiamo i piedi. Oggi è così: abbiamo sempre la testa altrove, quando siamo al mare pensiamo alla montagna, quando siamo in montagna al mare, quando siamo a Parigi pensiamo a New York, quando siamo a New York a Parigi... È fondamentale reinventare una nuova vita territorializzata

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