Nel corso degli anni ènotevolmente cambiato il modo di produrre e di distribuire il cibo, dal campo o allevamento fino alla nostra tavola. I fenomeni più vistosi sono stati la globalizzazione dell’industria alimentare, l’incremento dell’import/export di alimenti e materie prime, la concentrazione di grandi produttori a scapito dei piccoli, l’aumento di grandi punti vendita centralizzati e la diminuzione del numero dei piccoli negozi con il conseguente aumento di grandi autoveicoli per il trasporto di generi alimentari. Se 60 anni fa i cibi percorrevano solo pochi chilometri, dalla produzione alla padella, ora possono viaggiare per centinaia o migliaia di chilometri prima di finire in pancia. E’ indubbio che questi cambiamenti abbiano un impatto ambientale: sul traffico, sulle emissioni di CO2 e di smog, sul consumo energetico e così via. Appare tuttavia molto più difficile trovare un modo semplice per valutare quantitativamente questo impatto.
Recentemente ha cominciato a diffondersi l’uso dei “chilometri percorsi” dal cibo (i food miles nel mondo anglosassone, che potremmo anche tradurre com chilometri alimentari) come indice per misurare l’impatto ambientale. La semplice logica dietro questo concetto è che più un alimento ha viaggiato, più energia ha consumato, più combustibili fossili ha bruciato, più gas serra ha emesso (ricordo che i gas serra includono l’anidride carbonica, il metano e altri gas) e quindi più alto è l’impatto ambientale e meno il cibo è ecologicamente sostenibile.
Studi recenti però mostrano che le cose non sono così semplici e che i chilometri percorsi non sono un indicatore sensato dell’impatto ambientale e della sua sostenibilità
cont. qui - di Dario Bressanini
Come spesso accade dietro uno slogan alla Beppe Grillo si nasconde un problema vero che spesso viene semplificato in modo eccessivo e riduttivo. Concordo molto con questo interessante articolo di Bressanini in cui vengono messi in evidenza molti aspetti che ci dicono che a volte i cibi a km 0 non sono meno inquinanti dagli stessi cibi che vengono da migliaia di km di distanza. Quindi aggiungo che la soluzione se la vogliamo trovare è radicale. Se non voglio i pomodori coltivati in serra dietro casa fuori stagione e neanche i pomodori importati da un paese dove sono coltivati al sotto il sole cocente distante 10000 km, rinunciamo semplicemente ai pomodori quando non possiamo coltivarli "secondo natura" dietro casa nostra o giù di lì!
1 commento:
Anch'io nel mio blog ho recentemente affrontato questa questione, sulla scia di una puntata di Report che trattava proprio di questo.
La soluzione migliore e la più pratica è consumare solo ed esclusivamente frutta e verdura di stagione. E' inutile pretendere i pomodori a gennaio e gli asparagi a dicembre... mangi prodotti di qualità scadente oppure arrivati da chissà dove, con un impatto ambientale notevole... In inverno si mangiano gli agrumi, i cavolacei, le insalate invernali.... In estate i pomodori, le zucchine, i cetrioli..... Basta solo un poco di attenzione!!!
Ciao Checco!!!!
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