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lunedì, luglio 06, 2009

MORIRE DI DIAGNOSI

Anni fa un ospedale americano d'avanguardia con un ottimo reparto di pediatria prese in carico un maschietto di ventun mesi che chiamerò Kevin. Non gli funzionava bene quasi niente: era pallido, chiuso in se stesso, gravemente sotto peso per la sua età, rifiutava il cibo e aveva costantemente infezioni alle orecchie. Il padre se n'era andato da casa quando Kevin aveva sette mesi e la madre, che era spesso fuori per qualche "festa" , talvolta non gli dava affatto da mangiare oppure cercava di fargli inghiottire a forza un pastone di cibo per bambini e patatine fritte. Cominciò a occuparsi del caso un giovane medico, dispiaciuto di dover fare dei prelievi di sangue a questo bambino scheletrico. II medico si accorse che, dopo essere stato bucato dall'ago, Kevin non mangiava nulla. Limitò al minimo, andando a intuito, gli esami invasivi e cercò invece di assicurare al bambino un ambiente accogliente. Il piccolo in questo modo cominciò a mangiare e le sue condizioni migliorarono.

I superiori, però, non incoraggiavano questi metodi non convenzionali del giovane dottore, il quale alla fine non riuscì più a bloccare la macchina della diagnostica, e Kevin fu affidato una congrega di specialisti, ognuno dei quali era interessato ad applicare una sua particolare tecnica. Secondo la loro concezione della medicina, era dovere di un dottore individuare la causa della malattia del piccolo Kevin, ed erano convinti di non dover correre rischi: "Se muore senza una diagnosi, abbiamo fallito". Nelle nove settimane successive il bambino dovette sopportare una batteria di esami: scansione CT, beveroni di bario, numerose biopsie e colture ematiche, sei punture lombari, ultrasuoni e dozzine di altri esami. Che cosa rivelò tutto ciò? Nulla di decisivo; ma sotto questo bombardamento Kevin smise nuovamente di mangiare, al che gli specialisti cercarono di combattere gli effetti combinati dell'infezione, del digiuno e degli esami clinici nutrendolo per via endovenosa e con trasfusioni di sangue. Kevin morì poco prima di essere sottoposto a un nuovo esame, una biopsia del timo, ma i dottori continuarono le loro analisi anche durante l'autopsia, nella speranza di trovare finalmente la causa nascosta. Dopo la morte del paziente uno dei medici dell' ospedale ammise: "A un certo punto era attaccato a tre flebo nello stesso tempo. Non li abbiamo risparmiato nessun esame per scoprire che cosa stava succedendo davvero, ma nonostante tutto quello che abbiamo fatto è morto!".


Questa storia toccante è tratta dal libro "Decisioni intuitive" di Gerd Gigerenzer, ed è un classico esempio di come in questi anni molti medici, anche nei centri più prestigiosi, abbiano abbandonato il loro intuito basato sul vedere, pensando che il "vedere tecnologico" possa dare sempre risposte più affidabili.

Quanti piccoli e grandi Kevin muoiono ogni anno per non voler vedere con gli occhi del cuore?

sabato, agosto 16, 2008

La malattia del secolo? La diagnosi


I mille nomi astrusi della malattia di vivere

Italo Svevo, uno degli scrittori che con maggior consapevolezza hanno messo al centro della loro opera il rapporto tra salute e malattia, affermava che la salute non è altro che “il giusto medio tra due malattie” e che, in ultima analisi, la sola guarigione impossibile è quella dalla “malattia di vivere”.

Con l'aiuto di Svevo e della sua sottile ironia, noi tutti possiamo arrivare facilmente e senza drammi a questa conclusione: che non si morirebbe se non si fosse vivi. E che dunque la vita è la principale malattia che esista, la sola che con assoluta certezza provochi la morte.

Siamo tutti malati, dunque: malati di essere al mondo. Ma la medicina non può accontentarsi di una diagnosi così generica. Vuole bensì convincerci che siamo tutti malati, ma vuole anche applicare a ciascuno la sua etichetta, la diagnosi della sua specifica malattia.

Secondo gli autori di un intelligente e audace articolo apparso sull'inserto della salute del New York Times, oggi, nel mondo occidentale, staremmo vivendo una vera e propria “epidemia di diagnosi”. Un'epidemia che ci rende malati anche quando godiamo di ottima salute.

Si sa, infatti, che negli ultimi anni sono nate come dal nulla decine e decine di nuove malattie e che altre ne continuano a nascere a ritmo frenetico. Certo a nessuno dei nostri progenitori capitò mai di vedersi diagnosticare, da adulti, una “sindrome da affaticamento cronico” o ancor peggio, da bambini, una “sindrome da deficit attentivo”.

Una delle cause di questa “epidemia di diagnosi” va ricercata nei mezzi di indagine sempre più sofisticati e nell'uso eccessivo, talvolta sconsiderato, che la medicina ne sta facendo. Una vera e propria smania del test, una febbre dell'esame clinico, una psicosi delle “analisi” sembra essersi impossessata del genere umano. Una TAC e una risonanza magnetica non si negano a nessuno. E non c'è medico che apra bocca in assenza di una dettagliata e recentissima analisi del sangue.

H.G. Welch, primo firmatario dell'articolo cui ci riferiamo, è anche autore di un importante libro dal titolo molto significativo: Should I Be Tested for Cancer? Maybe Not and Here's Why (“Devo fare un controllo per sapere se ho un cancro? Forse no, ed ecco perché”). Una calorosa esortazione a non sottoporsi ad esami inutili, angosciosi e spesso dannosi.

L'altra causa di questa smania di diagnosticare malattie improbabili e sindromi inaudite a gran parte degli esseri viventi va ricercata, naturalmente, nei giganteschi interessi in gioco. Alla diagnosi segue il trattamento, e il trattamento significa spese mediche e farmacologiche. A trarne vantaggio sono in primo luogo le case farmaceutiche, ma anche gli istituti di cura e la classe medica in generale.

A pagare, in termini di denaro, è quasi sempre lo Stato, ma in termini di salute è quasi sempre il paziente. I farmaci non sono mai innocui, nemmeno quando sono necessari. Ma quando sono inutili fanno proprio male alla salute. La quale, come si è visto, non è che “il giusto medio tra due malattie”. Non diagnosticabili.


Preso da qui

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